sabato 10 marzo 2012

L'opinione del professor Sabbatucci

Da quando seguo da vicino il processo Marta Russo - e sono passati purtroppo diversi anni - ho sempre espresso la convinzione che tutta l'architettura dell'inchiesta (e poi la linea accusatoria dei pubblici ministeri in dibattimento) fosse basata su un presupposto errato e comunque non dimostrabile: l'indicazione della finestra della stanza 6 della Facoltà di Giurisprudenza come luogo di provenienza dello sparo. Sulla base di quell'indicazione, infatti, l'indagine è stata indirizzata verso i possibili frequentatori della stanza (fra i quali Scattone e Ferraro sono stati selezionati per esclusione); e sempre su tale base sono state acquisite, coi metodi e nelle circostanze che tutti conosciamo, le due testimonianze-chiave del processo, quelle di Maria Chiara Lipari e di Gabriella Alletto. A entrambe le testimoni è stato detto in sostanza: "Noi sappiamo per certo che il colpo è partito a quell'ora da quella stanza; e sappiamo anche che tu a quell'ora eri lì; dunque, se non confermi ciò che noi già sappiamo, sei colpevole o complice". Come su questa base siano stati suscitati forzosamente i ricordi e costruite le testimonianze è storia fin troppo nota: chi non la ricordasse può leggere i verbali di interrogatorio di Maria Chiara Lipari o la trascrizione (impressionante e illuminante per chiunque la legga con animo sgombro da pregiudizi) del famoso video relativo all'interrogatorio di Gabriella Alletto.
Il punto era - ed è - che il presupposto su cui il tutto si fondava non esisteva. O meglio consisteva in una perizia d'ufficio, subito contestata, che stabiliva la compatibilità delle particelle trovate sul davanzale con i residui dello sparo omicida. Questa perizia - che comunque non sarebbe stata sufficiente per fondare un'inchiesta e per escludere altre possibili ipotesi sul luogo di provenienza (fra cui quella, ben più plausibile, che faceva riferimento al bagno dei disabili al piano terra) - era già stata confutata dal perito nominato dalla corte al processo di primo grado. Ma, chissà perché, la corte stessa aveva ritenuto di tenere quella perizia nella stessa considerazione del parere di un privato cittadino.
Una nuova perizia, anch'essa disposta dalla corte nel processo d'appello, smonta completamente, sulla base di analisi sofisticatissime, l'ipotesi di partenza: le tracce trovate sul davanzale non sono compatibili con i residui dello sparo. Detto in altri termini, non solo manca la certezza che lo sparo sia partito da quella finestra (e questo già lo si sapeva), ma c'è qualche buon motivo in più per pensare che lo sparo non sia partito da lì; e che dunque tutto l'improbabile scenario costruito dall'accusa (due giovani studiosi incensurati si procurano, non si sa come, una pistola, mai ritrovata, e la usano per sparare a casaccio da una finestra colpendo a morte la povera studentessa: il tutto in un luogo aperto al pubblico e alla presenza di testimoni che li conoscono bene) sia fondato praticamente sul nulla.
A questo punto qualcuno avrebbe potuto aspettarsi che accusa e parte civile riconoscessero di aver imboccato una pista sbagliata (il loro ruolo li vincola infatti alla ricerca della verità, non alla condanna degli imputati comunque ottenuta) e che la corte, come avviene nei film americani, mandasse assolti gli imputati con tante scuse, senza nemmeno protrarre il dibattimento fino ai suoi esiti ultimi. In Italia, si sa, le cose non vanno così. Ma stupisce ugualmente sentire parte civile e pubblica accusa avvinghiarsi a quanto loro resta in mano con argomenti a dir poco sconcertanti. Si afferma che le perizie (solo quelle favorevoli alla difesa, evidentemente) sarebbero un trascurabile dettaglio tecnico, da cui non si potrà mai ottenere una qualsiasi certezza, dimenticando che tutta l'inchiesta è nata proprio da una perizia (sbagliata). Si ribadisce il valore fondamentale delle testimonianze Lipari e Alletto senza riflettere nemmeno un momento sul modo in cui sono maturate e sulle circostanze in cui sono state rese: sempre, lo ripetiamo, a partire dalla certezza esibita dagli inquirenti circa la provenienza dello sparo. Ci si esime insomma da qualsiasi verifica di attendibilità e di sincerità: come se le testimonianze, una volta consegnate ai verbali, assumessero, per ciò stesso, la dimensione di prova documentale, alla stregua di un'impronta digitale o di una inequivoca traccia di sparo. E' un altro aspetto di questo sciagurato processo su cui varrebbe la pena riflettere un po'.


Giovanni Sabbatucci

(docente di Storia contemporanea, Università Sapienza)